FRANCO BUSCA (1937 – 2014) ricordato a dieci anni dalla morte.
Il pittore domese, a dieci anni dalla morte, nel maggio 2024, è stato ricordato con una mostra retropettiva al Caveau Domocentro di Domodossola, curata da Elisa Cicolella, Maria Eugenia Durand, Bianca Sirocchi. E’ qui pubblicata la presentazione in catalogo di Giuseppe Possa.
Franco Busca, nato a Domodossola nel 1937, dove ha sempre vissuto e operato, fino alla morte nel 2014, è riconosciuto come un pittore “bohémien”, che ha lasciato un segno nel secondo Novecento ossolano. Benvoluto da tutti, divenne un’icona, un personaggio romantico della sua città.
Aveva trovato nell’arte, prima un rifugio per le proprie angosce e inquietudini giovanili; poi, intorno ai quarant’anni, uno stimolo per compiere quella metamorfosi mistico-esistenziale che lo condusse con serenità nel prosieguo della vita, trasformandolo da artista inizialmente travagliato e incompreso, in un “maestro” rispettato e ammirato.
Questo cambiamento fu reso possibile da una pulsione creativa straordinaria che lo portò a ideare una propria visione trascendentale del mondo, senza mai accettare condizionamenti o facili compromessi. Infatti, pareva irradiare l’aura di un saggio eremita o di un pensatore ascetico di epoche e luoghi lontani. Tale percezione era già tangibile in chiunque lo incontrasse per le vie del borgo, nel suo incedere lento e ieratico. La figura esile, gli occhi dolci e profondi, il volto scavato e gentile, lo elevavano al di sopra delle preoccupazioni terrene, come se fosse immerso in una sacralità laica, intento a seguire un sogno visionario tutto suo.
Ho conosciuto Busca negli anni Settanta; preferisco, però, lasciare quel periodo ai ricordi e alle testimonianze di coloro che gli erano allora amici, poiché la sua storia artistica, all’inizio, mi sembra sia stata osteggiata dai cultori delle tradizioni ossolane. Egli era un pittore che emergeva dal popolo, dalla povertà e dalle passioni di quei tempi, non da formazioni accademiche o da ambienti intellettuali locali. Questi ultimi, per di più, mal tolleravano le sue intemperanze. Furono anni difficili per Franco, punteggiati da frequenti momenti di scoramento, alleviati soltanto dagli incoraggiamenti e dal sostegno di alcune persone a lui vicine.
In ogni caso, quando nel 1989, su invito di Gianni Reami, all’epoca condirettore del settimanale Eco Risveglio, ebbi l’opportunità di intervistarlo, lui aveva già intrapreso il nuovo percorso di vita e io non intendevo scrivere delle sue vicende esistenziali. Il mio obiettivo era di evidenziare le sue opere e parlare della mostra che stava allestendo a Bognanco Terme. Al padiglione “Rubino” esponeva, appunto, diversi quadri che ritraevano – colti in espressioni e movenze particolari – alcuni grandi interpreti musicali, come Duke Ellington, Billie Holiday, John Coltrane, Oscar Pettiford, Thelonius Monk e altri.
Per soddisfare la mia curiosità, mi spiegò da dove era nata la sua passione per il Jazz. Anni prima, in fabbrica, aveva conosciuto Giulio Miserocchi, un batterista “sfegatato” e molto abile. Fu lui a fargli comprendere la musica e insieme avevano assistito a numerosi concerti. Mi confidò anche che sapeva suonare il pianoforte.
In quell’occasione, entrando nel piccolo appartamento di Busca, messogli a disposizione dal Comune di Domodossola, mi aspettavo di trovare un certo disordine (figurarsi un “single” e per di più artista!), invece la casa era accogliente e pulita. Espressi la mia sorpresa per l’ordine che vi regnava e lui, con un pizzico di ironia, si autodefinì un “casalingo”.
Dopo i convenevoli e le informazioni sulla sua esposizione personale al centro termale, mi mostrò pure le altre opere e alcune fotografie di quadri acquistati da collezionisti italiani, tedeschi, inglesi e francesi. Insistette poi per farmi vedere un filmato sulla sua attività, girato da un amico fotografo che lo aveva ripreso con raffinatezza in diversi attimi della giornata. Il finale era nato da una sua idea: lui stava concludendo di leggere le sue poesie accanto al televisore acceso, su cui appare un Busca che inizia una litania di bla-bla. Allora spegne l’apparecchio e, mimando un robot, scende in garage; qui il vero Busca chiude la porta e se ne va lungo un viale, sfumando come in un film di Charlot.
Raccolsi e annotai pochi dati biografici. Per il primo quadro, a olio su una tavoletta (realizzato intorno agli otto anni), raffigurante alcune barche al largo, aveva recuperato i tubetti vuoti gettati via da un pittore dilettante. Me lo mostrò con orgoglio, sebbene gli esiti fossero ovviamente ancora incerti. Fu così che incominciò la carriera e già allora sperava di diventare un artista, ma erano tempi difficili e la realtà era quella del secondo conflitto mondiale appena concluso. Terminate le scuole d’obbligo, per guadagnarsi da vivere, dovette presto impegnarsi come manovale; poi lavorò in fabbrica e come tanti giovani fu costretto, per il momento, ad archiviare i sogni.
La prima esposizione collettiva di Franco risale al 1965. Soltanto all’inizio degli anni Settanta, però, riuscì a dedicarsi completamente all’arte, allestendo una mostra personale in Valle Vigezzo (in seguito esporrà oltre che in alcune città italiane, in Inghilterra, Francia, Germania), e a sostenersi, non senza difficoltà e sacrifici, coi soli proventi derivanti dalla pittura.
Non ha frequentato una scuola d’arte; non ha mai avuto maestri e forse non ne ha neppure desiderati; ha imparato da solo, grazie a una passione innata, disegnando fin da ragazzo, al di fuori di ogni gruppo o corrente. Raccontò di aver osservato qua e là, ma si definiva un autodidatta. Tuttavia, si sentiva debitore a qualche “maestro spirituale”: Morandi per le nature morte, Botticelli per certe bellezze plastiche e sensuali, Gauguin per il colore.
Busca affermava di essersi ispirato al Quattrocento: aveva approfondito e fatto rivivere gli artisti di quel periodo. Da lì era risalito per mettere ordine alla propria pittura di intensa concentrazione emotiva, caratterizzata da purezza e pulizia, da sintesi e senso della simmetria, equilibrio degli spazi e particolare attenzione agli sfondi. Preferiva i colori nordici e non si considerava un pittore mediterraneo; piuttosto, il suo cromatismo tendeva a sfumare in tonalità orientali. Dipingeva a qualsiasi ora, quando l’ispirazione lo colpiva. Per Franco era una gioia: ma solo se il quadro riusciva come voleva lui; altrimenti era un “arrovellamento”.
Nel contempo, aveva intrapreso numerosi viaggi: in Nepal, in Afganistan e in altre nazioni, conservando anche qualche ricordo spiacevole, ma non ne parlò, sebbene desiderasse ritornare a Katmandu. Andò in automobile con un amico e durante il ritorno stavano attraversando l’Afghanistan quando esplose la rivoluzione. A un certo punto, l’auto si guastò e rimase inutilizzabile. Vissero giorni carichi di tensione e avversità.
Ora, però, voglio focalizzarmi esclusivamente sulle opere di Busca. La sua pittura possiede elementi della figurazione antica, con una grafia meticolosa e precisa. Le linee sinuose o talvolta arcuate si intrecciano con colorazioni delicate e sfumate. Franco utilizzava simbolismi arditi e riappropriazioni di forme archetipe, una tendenza, a mio avviso, che nasceva dall’incontro-scontro tra un istintivo realismo, per certi aspetti magico, e un’astrazione metafisica, tra il verismo prospettico e la metafora illustrativa.
È il “silenzio” a emergere dalle sue opere, ma non inteso come solitudine, bensì come preludio di una rivelazione: la quiete contemplativa che precede la creazione artistica. Forse è per questo, che chi ammira i suoi quadri lo fa quasi in un “devoto” silenzio. I suoi lavori sono paragonabili agli haiku, brevi componimenti poetici giapponesi: in questi pochi versi, in quelli pochi oggetti.
Busca non si limitava a guardare semplicemente la realtà, ma la trasfigurava nell’idea percettiva e nell’immaginazione: osservava una mela e si lasciava affascinare dalla sua forma rotonda e sensuale, che rievoca un seno. Dipingeva elementi quotidiani, cose domestiche che lo attorniavano: una scatola, un uovo (emblema di vita, così prodigioso da sembrare sul punto di scivolare fuori dalla tela), un peperone rigoglioso, un panno, un vestito, una matita, stoviglie in perfetto ordine, un bicchiere, una brocca, le posate, come fossero dei ritratti, da cui, nella loro singolarità iconica, emerge una storia, dove in “trono sta l’oggetto”. Inoltre, disegnava giocattoli appoggiati su casse impolverate a evocare ricordi ludici dell’infanzia; scrigni e cofanetti, custodi di memorie segrete; finestre chiuse o spalancate sull’infinito; muri simili a sudari, sovrastati dall’azzurro che avvolge il sole mattutino.
Franco ritraeva con maestria anche nudi femminili, colti in pose carnali o voluttuose, dispiegate sulla tela con erotica maestosità. Le loro forme plastiche paiono irradiare la bellezza di antiche ninfe pagane. I paesaggi, sia reali sia immaginari, lo affascinavano; in particolare, i grandi spazi, perché poteva impreziosirli con tramonti straordinari. Per le vedute cittadine o periferiche, trovava ispirazione nei palazzi, nelle case e in altre strutture architettoniche, che raffigurava come volumi geometrici, appena stilizzati, senza tradire la percezione visiva dello scorcio. A chi li osserva appaiono simili a splendidi involucri su cui si misurano gli effetti luminosi, le trasparenze fiammanti, le velature sapienti, quasi che il nitore della luce abbia il potere magico di solidificarli.
E poi dipingeva oggetti dimenticati, fiori e nature morte, nel suo caso meglio definirle “vite silenti”, o altri motivi ricorrenti, nei quali ci fa scoprire un mondo di valori antichi e di emozioni vivide: in un certo senso, fra i suoi risultati più alti e riusciti.
Busca era anche un abile disegnatore; infatti, non mancava di reinterpretare capolavori famosi in contesti personali. Ogni tela porta con sé una tensione spirituale, una grazia lirica, visibile specialmente nei dettagli, supportati da un notevole gusto creativo.
Tra tutte queste opere di squisita fattura, una in particolare mi aveva colpito per il soggetto, che allora era molto sentito: “Composizione”, suddivisa in sezioni illustrative semplici e chiare, dedicata alla “Resistenza”, la quale sembra suggerire che la storia non deve essere mummificata nella memoria, poiché la lotta per la libertà e la pace deve continuare oggi, con nuovi mezzi e sotto altre forme, come impegno civile di tutti.
I quadri di Busca sono rivelatori non solo della natura del suo mondo pittorico, intriso di cultura figurativa e di una sensibilità cromatica raffinata, ma pure di uno “stile” espressivo, incantevole e di struggente vigore poetico, che, qui nell’Ossola, porta l’inequivocabile impronta della sua mano, perseguita e resa unica, soprattutto negli ultimi decenni.
Si può ancora, osservando le sue tele, percepire una tonalità eterea, ma al contempo delicata, che descrive con precisione accurata e realismo gli oggetti e gli scenari della quotidianità, con un’inventiva da cui l’autore ha tratto linfa vitale per la sua arte.
Un rilievo considerevole rivestono i ritratti, non semplici istantanee, ma rappresentazioni ponderate e finemente eseguite, che esplorano la potenzialità dei colori freddi del nord o caldi del deserto, con le luci nettamente spartite dalle ombre. Alcuni dei suoi volti esprimono, dissolvendosi nell’atmosfera, un dileguarsi dei rapporti umani: una muta inquietudine che si consuma nella malinconia urbana o nell’abbandono delle periferie. Ritratti autentici: come quelli di persone (e talvolta anche di animali domestici) che vanno oltre l’apparenza, per rivelare le più profonde sfumature della loro essenza interiore. Da questi visi – ora addolciti in una visione fugace, ora con sentimenti poetici – affiora un silenzio intimo, che è sofferto e meditato diario dell’anima.
Non può sfuggire, peraltro, come la figura umana (il corpo, il volto soprattutto) sia costantemente ritratta in una dimensione di affanno esistenziale. Persino i suoi nudi sembrano provenire da luoghi reconditi (forse “paradisi” all’improvviso perduti), rinchiusi in un isolamento che trascende la mera solitudine. Di certo, nelle sue composizioni (dove spesso si avverte un gusto per la citazione), riesce a essere calibrato, evitando ogni eccesso di dettaglio per non scivolare nel fotografico.
Sono proprio le immagini, accostate e associate con minuziosità del tratto, pregevoli per la loro scioltezza, varietà tonali e cromatiche, a rendere affascinante questa pittura. Essa è quasi teatrale per quella sospensione degli oggetti, che, umanizzati fino a diventare figure solitarie e stilizzate, fluttuano in uno spazio-tempo onirico, dando l’impressione di rappresentare un po’ tutti noi, messi in scena coi nostri gesti quotidiani.
Inoltre, i dipinti sono costruiti con tagli precisi, a volte con prospettive dall’alto, e orchestrati con sapienza e maestria nella disposizione dei piani e dei volumi, in un equilibrio compositivo che testimonia l’abilità di Busca.
In conclusione, lo si può definire un pittore di straordinaria immediatezza, la cui chiarezza descrittiva è il risultato di una ricerca tenace e incessante che costituisce la sua “cifra” distintiva. Franco ha saputo sublimarsi nella consolazione dell’arte, al di fuori dei canoni contemporanei, indifferente a tendenze e classificazioni, poiché dotato di un talento istintivo e naturale. Operava accuratamente, ma con anima libera e innocenza di cuore, che gli hanno permesso di seguire le sue inclinazioni autentiche e di sviluppare una schietta contemplazione lirica del mondo.
E per lasciare un ricordo suggestivo del suo essere stato artista, cito queste parole che pronunciò durante quel nostro incontro: <<La pittura è il mio modo di comunicare; mi piace perché si avvale di un “linguaggio” di silenzio ed è destinata agli occhi. Non si può far vedere un quadro alle orecchie: non si dipinge con le chiacchiere. Faccio il pittore per stare muto, se fossi loquace terrei comizi. E poi, sarò presuntuoso, ma dedicandomi all’arte, pur vivendo con poco, mi sono sempre mantenuto>>.
Giuseppe Possa
(Maria Eugenia Durand, Elisa Cicolella, Vanda Cecchetti, Giuseppe Possa)